Emozione Genji. L’emozione della letteratura giapponese.

Emozionata, sì, nel prendere in mano Storia di Genji, la tanto attesa traduzione del Genji monogatari di Maria Teresa Orsi condotta sul testo giapponese. Emozionata e contenta.

Illustrazione di Yamaguchi Itarō da Storia di Genji, Einaudi, 2012.

La mia prima lettura del Genji monogatari, in italiano naturalmente, risale a una vita fa.  Letteralmente.  

L’estate della maturità è stata l’estate della scoperta della letteratura giapponese. Certo, la mamma mi aveva regalato un bellissimo libro illustrato di fiabe giapponesi, durante il lungo isolamento imposto dalla scarlattina, ma quel libro, che custodisco gelosamente ora come un tesoro – il primo di una cospicua biblioteca giapponese tutta mia – era allora abbandonato negligentemente su uno scaffale, nella stanza da ragazza che condividevo con mia sorella.

Quell’estate invece, in un paesino del Friuli pedemontano, insieme ad alcune compagne di scuola alla ricerca della concentrazione in vista dell’esame di maturità, è stata l’estate dell’incontro con la letteratura giapponese, un incontro per tutta la vita. 

E come tutti gli incontri, è avvenuto per caso. E come tutti gli incontri, non si riesce a vederne la portata se non a distanza di tempo. Una festa tradizionale a Sacile, una notte trascorsa a passeggiate innocue e a tranquille chiacchierate, fra le strade e i banchi di un mercato, i nostri passi svagati e leggeri. L’unica  vetrina di una libreria e, fra tutti i libri esposti, quell’unico libro ad attirare la mia attenzione, un libro di cui non sapevo nulla allora, ovviamente, La chiave di Tanizaki Jun’ichirō. Neppure dell’autore sapevo nulla, ma quel cognome e quel nome polisillabici non potevano che appartenere a uno scrittore giapponese. Questo sì, lo sapevo anche allora.

L’acquisto d’impulso di un piccolo Oscar Mondadori. Una scelta del tutto casuale. E, d’improvviso, l’apertura di un cancello. Ora direi, meglio, il glissare di uno shōji. La scoperta di un mondo.

A quella lettura “giapponese” ne sono seguite innumerevoli, ma un altro caso cementò quell’amore.  Qualche mese dopo la maturità ero ancora lì, a comprare libri di autori giapponesi, ma nel frattempo ero riuscita a coronare un sogno: lavorare in una libreria. D’accordo, al momento si trattava di una libreria scientifica, ma poco importava. Vivevo in mezzo ai libri, inseguivo le mie passioni.

Che forse in qualche modo raggiungevano le persone che mi stavano attorno se al primo compleanno utile un collega pensò bene  di regalarmi un profumo che portava il nome di una scrittrice giapponese: Murasaki.

Tōkyō Kokuritsu Hakubutsukan, Murasaki Shikibu Nikki Emaki, XIII sec., part.

Bastò quello? Non so, ma ricordo che per prima cosa andai alla Biblioteca Comunale Sormani a scartabellare fra quelle schede consunte, in mezzo a quegli schedari grigi in cui avevo consumato le dita per preparare le mie tesine di letteratura italiana. Sì, Murasaki c’era e la Storia di Genji, principe splendente era disponibile per il prestito.

Allora non mi importava molto che la traduzione fosse filologicamente scorretta, che fosse dall’inglese, piena di errori e incongruenze. Lo scoprii in seguito, a mano a mano che mi addentravo nella cultura giapponese, che studiavo, che approfondivo, che il gusto si affinava e le esigenze crescevano.

Allora mi bastava che il cancello socchiuso restasse aperto. Anzi, che si spalancasse, facendomi entrare.

Dopo tanti anni, di nuovo il mio compleanno, di nuovo Murasaki. Se il Genji era allora un’immagine sfuocata, avvolta nella nebbia, ora emerge finalmente, figura in primo piano che si staglia nella luce.  

E il cancello resta aperto.

Hakubyu Genji Monogatari Emaki dipinto da Keifukuin Gyokuei, 1554.