Mukashi mukashi. Letture per farci compagnia. Incontro al parco.

Hen’mi Takashi (1895-1944), Panchine al parco e alberi, 1920.

La bici con il ragazzino in piedi sui pedali scomparve oltre la fontana sollevando girandole di foglie morte. Nel tramontare, il sole era finito dietro una coltre di nubi cosicché, mentre il buio iniziava a scendere sui giardini pubblici, la gente iniziava a alzarsi dalle panchine. Io stesso pensai che era il caso di rientrare. Avevo l’impressione che l’avanzata dell’ombra fosse un simbolo delle avversità e che il venticello di fine estate, di norma benvenuto, provocasse una spiacevole sensazione di freddo. Stavo per alzarmi quando il vecchio seduto accanto mi fa: “È dura al lavoro, eh?”. 

Indossava guanti di lana benché l’autunno fosse appena cominciato, aveva un bastone e calzava scarpe di tela. Il maglione grigio cenere sulla sua schiena ingobbita era decisamente datato e le maniche erano slabbrate. Mi ci ero seduto di spalle proprio per evitare di incrociarne lo sguardo, disturbato al pensiero che nei giardini pubblici al tramonto ci sono sempre questi vecchi indigenti. Ora che d’improvviso attaccava a parlarmi non potevo però andarmene via facendo finta di niente. 

“Eh sì!” risposi, e mi voltai verso di lui. Ma mi scocciava iniziare una conversazione, quindi non lo guardai negli occhi e feci scivolare lo sguardo sul bastone. Era di ottima fattura, il manico in avorio intarsiato goffrato d’oro. Riesaminai gli indumenti del vecchio. È vero, erano consunti, ma maglione guanti pantaloni ogni cosa che aveva indosso era tutt’altro che roba da quattro soldi. 

“Con il sole dietro le nuvole, anche prima del tramonto vanno tutti via dai giardini pubblici. Vai a capire perché. Anche in primavera, anche d’estate. Strano no?”. 

Proprio mentre lo diceva uscì di nuovo il sole. Foglie secche, panchina, scarpe di tela del vecchio si tinsero del rosa del tramonto. Sarò diventato anche io di quel colore. 

“Se sono giù di corda provo a ricordare quando ero bambino. È un trucco per tornare al meglio”. 

“Ho l’aria di chi è giù di corda?”.
Alla mia domanda l’uomo rispose solo con un sorriso. Senza dire altro si alzò lentamente in piedi, si inchinò lievemente, solo con la testa, e si allontanò piantando bene, passo dopo passo, i piedi sul tappeto di foglie secche del viale. In effetti era turro il giorno che non mi sentivo in gran forma. Altrimenti non me ne sarei mai stato a perdere tempo sulla panchina di un giardino pubblico al tramonto di quella che non era neanche una giornata di festa. Di cose che mi buttavano giù ce ne erano in quantità. La mancanza di sonno, la rottura di una trattativa di affari di cui si iniziava a prospettare un buon esito, l’aborto spontaneo subìto da mia moglie, l’’esborso di danaro per compensare legalmente gli innumerevoli graffi che la mia figlioletta aveva fatto con un chiodo all’auto appena comprata dai vicini. Il caso, è vero, aveva concentrato in un breve periodo una serie di problemi, tutt’altro però che insolubili o rari nella vita della gente. Comunque, ero molto giù di morale. Uscito dal lavoro in preda a una profonda frustrazione, come chi sia consapevole di essere stato sconfitto dalla vita o come chi abbia commesso un crimine contro la propria volontà manovrato a mo’ di burattino da una forza diabolica, invece di incontrare il cliente che avevo in agenda mi ero seduto in un caffè a ingannare il tempo. Poi me ne ero andato pigramente a spasso fino a giungere senza farci neanche caso ai giardini pubblici. 

Sedetti di nuovo sulla panchina di quel luogo ormai quasi deserto e fumai una sigaretta. La luce del sole durerà un’altra ventina di minuti – pensai. Avevo adesso una opinione ancora peggiore di prima del vecchio, la cui figura era scomparsa dietro i filari di pioppi, oltre la fontana. Passa certo le giornate – mi dissi – a passeggio qua e là nei giardini pubblici distribuendo sguardi maliziosi per capire chi è giù di corda. Trovata una preda la avvicina, sussurrandole come perdere ancora più forza vitale: pensa a quando eri bambino. 

Il tempo in cui eri ingenuo, in cui non prefiguravi che felicità a venire, in cui pioggia, fulmini, caldo e freddo insopportabili giustificavano il desiderio di essere protetto. Cosa cambia se rammenti quel passato? Non puoi farci ritorno, la nostalgia si somma alla frustrazione. Fatto sta che, a forza di simili pensieri, mi era tornata alla mente l’infanzia. Un ricordo tutt’altro che nitido, come velato da una leggera nebbia. Non riuscivo neanche a ricordare che faccia avessi da piccolo o in che sogni mi cullassi. 

Accesi svogliatamente un’altra sigaretta e guardai lo spruzzo d’acqua della fontana. Un ragazzo portato a passeggio da un cane al guinzaglio puntava i piedi a terra per fermarsi. Fra guaiti ansimanti il cane muoveva le zampe a vuoto sulla ghiaia mettendocela tutta per continuare la passeggiata. Il ragazzo cedendo alla sua insistenza riprese a avanzare, chinato in avanti, trainato dal cane. All’improvviso davanti alla fontana, dove non c’era più nessuno, mi apparve l’immagine di schiena di me al primo anno delle elementari: camminavo a passi saltellanti con la cartella in spalla. Fissavo lo sguardo su di un me stesso seienne da me stesso messo lì nel rosa di un tramonto deserto. […]

 

Miyamoto Teru

(Kōbe, 1947)

 

Traduzione di Paolo Villani.

Da: “Forza” (Chikara, 1978) in Bagliori fatui, Milano, Carbonio Editore, 2017.

 

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“È dura al lavoro, eh?” dice uno dei personaggi all’inizio di questo bel racconto di Miyamoto. Mi sembrava adatto per ricordare il 1° maggio, Festa del Lavoro quasi ovunque nel mondo, ma non in Giappone, dove la Festa del Ringraziamento per il Lavoro (Kinrō Kansha no hi), derivata da un antichissimo rito shintō, è celebrata il 23 novembre. Miyamoto Teru è un autore che amo per la sua sensibilità acuta e l’empatia, la sua capacità di raccontare il Giappone degli ultimi, e in particolare il sottoproletariato di Ōsaka, con un sentimento di umana partecipazione che il regista Kore-eda Hirokazu ha saputo trasferire in un film di grande bellezza come Maboroshi (Maboroshi no hikari), splendida pellicola del 1995 tratta proprio da due racconti della raccolta Bagliori fatui.