Mukashi mukashi. Letture per farci compagnia. Tanizaki, ad esempio.

La cucina dell’amica. Hida Furukwa, aprile 2017.

Dotata fin dalla nascita di un palato molto raffinato, Suzu era anche una bravissima cuoca, potendo contare sulla straordinaria capacità di distinguere al primo assaggio i diversi sapori di una pietanza. Ma nella sua abilità ai fornelli giocò senza dubbio un ruolo determinante l’iniziazione ai segreti della cucina del Kansai a opera di Hatsu, la cameriera veterana, che all’epoca era ancora a servizio dai Chikura e faceva avanti e indietro tra Kyōto e Atami come responsabile delle cucine. Persino il tè era più buono, quando a prepararlo era Suzu. Grazie alla sua spiccata sensibilità culinaria, era in grado di apprezzare il buon cibo molto più della maggior parte delle persone, e per questo Raikichi e Sanko erano contenti di portarla ogni tanto con loro nei migliori ristoranti della città. Oppure, quando i padroni di casa ricevevano in dono qualche squisitezza, ne mettevano sempre da parte una porzione e le dicevano: «Dai, Suzu, assaggia questo e dicci com’è».

Questo mi riporta alla mente un altro episodio degno di essere raccontato. Una volta, appena due o tre giorni dopo il suo arrivo nella residenza di Shimogamo, Suzu entrò nella stanza con tatami per prepararsi a servire la cena e trovò Raikichi seduto sul futon con accanto un tavolino laccato rosso. Era molto bello e robusto, ben lucidato, con il piano quadrato e gli angoli smussati. Sul tavolino, e su un grande vassoio a fianco, erano sistemati numerosi piatti contenenti pietanze che Suzu non aveva mai visto in vita sua e non era in grado di distinguere. Erano stati ordinati da un ristorante cinese chiamato Hiran, “Nuvole fluttuanti”, che ancora oggi serve un’ottima cucina all’incrocio tra Kiyamachi-dōri e Sanjō-dōri. Tra quelle portate dovevano esserci certamente la medusa marinata, le “uova dei cent’anni”, la zuppa di nidi di rondine e quella di pinne di squalo, il maiale Dangpo e altre tipiche prelibatezze cinesi. Vedendo Raikichi e Sanko gustare deliziati tutto quel cibo, Suzu rimase senza parole nel constatare che fosse possibile mangiare simili stranezze. Neanche il tempo di pensarlo e Sanko la invitò ad avvicinarsi con un cenno della mano e cominciò a servirle una modesta porzione di ciascuna pietanza in piccoli piatti e ciotole, dicendole: «Non hai mai assaggiato niente del genere, vero? Su, prova, è tutto buonissimo. Ma ti consiglio di mangiare qui, senza portare niente in cucina, altrimenti le altre ti vedranno e andrà a finire che ne vorranno anche loro».

Quel giorno Suzu ebbe modo di gustare la cucina cinese per la prima volta nella sua vita. Il risultato fu sensazionale: non aveva mai mangiato niente di tanto squisito! Possibile – si chiedeva mentre assaporava le pietanze una dopo l’altra – che esista al mondo qualcosa di così buono? Da quel momento, tutte le volte che se ne presentava l’occasione, parlava agli altri di quell’episodio indimenticabile e della gioia sublime che aveva provato con il palato e con la mente.

In seguito, Raikichi la portò con sé al ristorante francese Alaska, al sesto piano dell’Asahi Hall di Kawaramachi. Di norma, una ragazza poco avvezza all’ambiente si sarebbe sentita confusa e a disagio in un ristorante di lusso come quello, ma Suzu non mostrò alcun impaccio. Probabilmente perché, in virtù della sua bellezza e giovane età, il cameriere la scambiò per la figlia di Raikichi e la trattò di conseguenza. Prese posto di fronte al suo datore di lavoro e ne studiò con attenzione ogni movimento senza chiedere nulla, così da apprendere bene e in fretta il galateo della tavola e non creargli imbarazzo, dal modo conveniente in cui gustare la zuppa fino all’uso corretto di coltello, forchetta, coltello da burro e così via. Non era un’impresa facile per una giovane e semplice domestica, ma Suzu seppe trarre da quell’esperienza una buona dose di coraggio e sicurezza. Dopo quella prima volta, fu possibile portarla senza alcun timore nei locali più riservati ed esclusivi: si adeguava subito all’atmosfera del posto e non commetteva errori, rispettando appieno l’etichetta, né d’altra parte osava assumere un’aria affettata da signorina di buona famiglia.

Tanizaki Jun’ichirō

(1886-1965)

Traduzione di Gianluca Coci.

Da Le domestiche (Daidokoro  taiheiki, 1962), Milano, Guanda, 2018, pp. 358-364.

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Nell’arco di vent’anni, dagli anni Quaranta agli anni Sessanta, presso la famiglia Chikura si alternano a servizio varie ragazze che, con la loro personalità, i loro amori e i loro modi punteggiano la vita dei coniugi Raikichi e Sanko di episodi buffi e curiosi, lasciando dietro di sé chiacchiere e ricordi. Tanizaki inanella, in questo romanzo dall’apparenza svagata, una gustosa serie di ritratti femminili indimenticabili, tratteggiati con mano felice e spirito lieve, e ci regala così momenti di lettura di puro piacere.