Sulla letteratura consolatoria.

Forse la cosa più saggia è sempre tornare ai classici. Anche nella letteratura giapponese.

Confesso che esplorare i banchi delle librerie alla ricerca di letteratura giapponese in questo periodo mi lascia sempre delusa e non perché non ci siano proposte.

Solo che nessun libro “mi chiama”, come direbbe il protagonista di un anime che avevo amato tempo fa. Tutti questi mici e micetti, gattini che cadono dal cielo o caffetterie magiche, ristoranti incantati o tazze di tè che dispensano felicità, oggetti che fanno stare bene e altre amenità di questo genere no, non fanno per me.

È quella che chiamo “letteratura consolatoria”, un genere che scala le classifiche come niente, che risolve, oserei dire. Risolve il regalo all’amica ma anche il momento di noia, risolve un pomeriggio domenicale di pioggia e, ne sono certa, ha risolto parecchi regali di Natale.

No, questa letteratura “incantata” che racconta un Giappone di maniera, altrettanto fiabesco, no, non fa per me. Io ho bisogno di storie “larger than life” (non mi viene al momento nessuna espressione altrettanto efficace), che mi incidano, non che mi sfiorino, che mi lascino tracce, che sia impossibile dimenticare.

Che mi insegnino qualcosa.

Questa letteratura consolatoria non riesce a toccarmi, non mi commuove, e mi sembra artificiosa.

Lascia indietro il Giappone che incontri per strada, negli sguardi delle persone, sui treni della serata che riportano a casa,. 

Meglio tornare ai classici, allora. Antichi, moderni o contemporanei che siano ti prendono per mano e non ti lasciano andare. Diventano parte di te.

Kyōto, una libreria dalle parti di Teramachi, 2015.