Japonismes. Letture per farci compagnia. Sprofondare nella natura.

Il villaggio di Hakone nel 1910. Foto d’epoca.

 

Inizio il mio soggiorno in Giappone con un’escursione a piedi attraverso Yamato, la provincia del paese a cui sono legati i suoi ricordi più antichi e sacri. È il periodo dei pellegrinaggi ai santuari buddhisti, e tutte le strade e le foreste sono affollate, come se metà Giappone fosse in gita di piacere. Per quanto è possibile condivido la vita dei miei compagni di viaggio, cerco di pensare e di sentire come loro e di percepire con i loro sensi.

La natura giapponese è senz’altro la più duttile di tutte, dato che vi prolifera un numero enorme di tipi di conifere e la boscaglia possiede le forme più meravigliosamente varie; nessuna volontà umana potrebbe comporre in modo più artistico le sfumature ottenute spontaneamente dalla suddivisione dei colori e delle forme alle differenti altitudini. Perché mai stupirsi quindi se il giapponese è dotato di una grande sensibilità per le forme naturali? È chiaro infatti che una natura riccamente articolata risulta stimolante nello stesso senso in cui colui che la buona sorte ha fatto crescere circondato da tesori artistici – e che può dunque considerarli non come uno splendore estraneo, ma come il proprio ambiente naturale – pur avendo di per sé doti soltanto mediocri possiede ugualmente un gusto e un occhio che i discendenti assai più artisticamente dotati di paesi barbari acquistano solo eccezionalmente. A latitudini in cui i contrasti di luci e di colore sono così forti da nascondere le gradazioni più sottili, nemmeno il popolo visivamente più dotato può fare altrettanti progressi nella pittura di paesaggio di quanti ne farebbe in regioni caratterizzate da condizioni di rifrazione della luce più favorevoli. Non a caso il paesaggismo occidentale è sorto e si è massimamente sviluppato in Olanda, non in Italia. Ora, è il Giappone stesso a indurre l’occhio a concepire proprio quelle relazioni formali e cromatiche che sono caratteristiche dell’arte giapponese, nel senso che ogni sua specifica sfumatura vi è già data. Una volta che tale natura è stata colta e compresa, lo spirito artistico continua infatti involontariamente a creare nel suo senso; ed è appunto questo continuare a comporre nello spirito e nel senso della natura che fin dai tempi antichi è stato attuato dagli artisti dell’Estremo Oriente con una sensibilità che a noi è rimasta ignota. È come se in essi l’anelito alla bellezza proprio della natura avesse preso coscienza di sé e l’uomo fosse l’organo particolare tramite il quale essa raggiunge la sua perfezione ultima: qui  egli è per così dire il responsabile dell’armonia più assoluta. Ma da dove trae questo meraviglioso potere? Esso gli viene fornito dal metodo con cui l’orientale impara a vedere. I pittori cinesi e giapponesi sono yogin, cioè non contemplano la natura dall’esterno, ma vi si sprofondano come il mistico si profonda in Dio, uscendo così dalla dimensione umana e divenendo tutt’uno con lo spirito delle cose. Non v’è dubbio che l’uomo non è solo uomo, ma, con parti diverse della sua essenza, è al tempo stesso animale, pianta, roccia e mare, solo che ne diviene cosciente soltanto di rado ed è capace di sentire solo come uomo. Ma se egli impara a divenire tutt’uno con ciò che vive al di fuori di lui come un alcunché di apparentemente estraneo, allora può produrlo anche traendolo dal proprio stesso interno. È per questo che i paesaggi orientali contengono in tutto e per tutto la vita del paesaggio reale, e che il giapponese, come per gioco, riesce comunque a utilizzare in modo artistico la natura come tale. L’assoluta perfezione delle composizioni floreali giapponesi è dovuta al fatto che è lo spirito intimo dei fiori in quanto tale a intrecciare il mazzo; in Giappone perfino le foreste amministrate secondo una rigorosa tecnica forestale non sono così brutte come quelle tedesche, poiché qui l’uomo, anziché imporre la sua opinione agli alberi, li favorisce in ciò che preferirebbero fare se fossero lasciati a se stessi. [. . .]

Adesso sto percorrendo vallate fuori mano, in cui l’uomo bianco non penetra quasi mai, e per gli abitanti dei villaggi rappresento un inesauribile motivo di divertimento. Essi sono più cordiali e premurosi che mai, solo che a causa della mia altezza, che ai loro occhi appare sovrumana, si mettono a ridere qualsiasi cosa faccia. Stamani, mentre salivo lungo un ripido sentiero, mi sono sentito spingere e quando mi sono girato ho scoperto due ragazzine graziosissime in preda alle risa: avevano voluto verificare quanto fossi pesante. C’è pur sempre qualcosa di meraviglioso nell’ignoranza contadina. 

Lo so bene se penso alla mia patria. Quando mi reco nei miei remoti possedimenti di campagna provo ancora una sorta di profondo rispetto constatando quanto, nelle cerchie di persone più ristrette, appaia significativo anche il fatto più quotidiano, e fino a che punto la prospettiva più angusta accresca il senso di ciò che non rientra nella quotidianità. [. . .]

La popolazione della provincia giapponese mi è più simpatica di ogni altra che ho conosciuto e possiede tutte quelle doti di dolcezza, delicatezza, assennatezza, sensibilità e piacevolezza che da quando ho letto Lafcadio Hearn mi hanno fatto apparire così amabile il piccolo uomo di queste latitudini. Gli abitanti di queste contrade sono amabili e la loro gentilezza viene senza dubbio dal cuore, dato che non ho percepito alcuna traccia di avidità e di impostura. Forse essi mi mostrano i loro lati migliori perché, su consiglio della mia guida – un giovane poeta di Kyōto – mi comporto con loro come con i contadini dalla mentalità patriarcale della mia patria, cioè da signore feudale. Nelle valli remote di Yamato il Medioevo non è ancora finito e l’epoca di Meiji sembra appena all’inizio. Qui il contadino si aspetta ancora che i suo signore dimostri superiorità, magnanimità, distacco, insomma quella consapevolezza di una supremazia talmente assoluta da consentire appunto la massima famigliarità nei rapporti umani. Qui la gente vuole ancora poter guardare dal basso in alto. Con quale piacere sono tornato ad assumere un ruolo che nel mondo attuale si ha sempre meno occasione di recitare! Il risultato pratico è stato che ovunque ho incontrato persone che mi offrivano i loro servigi e mi facevano favori senza pretendere nulla in cambio.

(1911)

 

Hermann Graf von Keyserling

(1880-1946)

 

Traduzione di Giovanni Gurisatti.

Da: Diario di viaggio di un filosofo, Vicenza, Neri Pozza, 1998, pp. 145-149.

 

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Keyserling, aristocratico tedesco proveniente dal Baltico, fu naturalista e filosofo. Particolarmente interessato ad approfondire la conoscenza delle culture extraeuropee e della spiritualità asiatica, nel 1911 compì un viaggio attorno al mondo che lo portò in India, Cina, Giappone e nelle Americhe e da cui ricavò un diario di viaggio che, pubblicato nel 1919, divenne uno dei best-seller dell’epoca. Nelle pagine sul Giappone e nel brano che ho scelto qui, traspare inevitabilmente, oltre alle abituali osservazioni sulla presunta “specificità” del carattere dei giapponesi, un paternalismo da signorotto di campagna su cui comunque sembra egli stesso il primo a voler scherzare: “Con quale piacere sono tornato ad assumere un ruolo che nel mondo attuale si ha sempre meno occasione di recitare!”.

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