Mukashi mukashi. Contro l’epidemia, leggiamo! La ragazzina di Kawabata.

Tsutsui Toshimine (1863-1934), Sotto il ciliegio in fiore.

Nella carrozza cinque nonnine mezzo appisolate si raccontavano che quest’inverno andava bene col raccolto dei mandarini. Il cavallo correva e dimenava la coda come a scacciare i gabbiani.

Kanzō il vetturino ha un immenso amore per il cavallo. Inoltre è l’unico in questa contrada a possedere una carrozza da otto. Ed è così pignolo, che la sua è sempre la meglio tenuta tra le carrozze della contrada. Quando si avvicina una salita, per il bene del cavallo smonta giù con un salto dal suo posto di cassetta. In segreto nutre l’orgoglioso convincimento che questo suo saltar giù e saltar su sia di magistrale scioltezza. Gli riesce, poi, perfino seduto a cassetta, d’indovinare dal rollio della carrozza se qualche bambino si è appeso a dondolare dietro alla vettura, e allora si lancia giù con una falcata disinvolta e gli accomoda un bel cazzotto in testa. Perciò i bambini della contrada mirano alla carrozza di Kanzō più che ad ogni altra cosa, e pure la temono più di ogni altra cosa.

Oggi, però, i bambini non c’è verso che si facciano acciuffare. Ossia, non si riesce a coglierli in flagrante, a ciondolare appesi come scimmie dietro alla carrozza. Di solito lui si lancia giù agile come un gatto, lascia passare avanti la carrozza, accomoda un bel cazzotto in testa ai bambini che ciondolano ignari, e dice trionfante:

«Stupidi che non siete altro.»

Provò a saltar giù un’altra volta dal suo posto a cassetta. E con questa fanno tre. Una ragazzina di dodici tredici anni con le guance in fiamme cammina spedita. Ansima e sussulta con le spalle, e le luccicano gli occhi. Però ha addosso un vestito rosa. Le calze le sono scivolate giù fino alle caviglie. E non porta scarpe. Kanzō lancia alla ragazza un’occhiata di fuoco. Lei volge lo sguardo verso il mare di lato, e continua a zampettare dietro la carrozza.

Kanzō tornò a cassetta con uno schiocco di lingua. Al pensiero che la ragazzina, di una bellezza aristocratica mai vista da quelle parti, doveva certo essere venuta in vacanza in qualche villa della costa, ebbe un attimo di titubanza, ma poi si infuriò, perché era saltato giù non una bensì tre volte senza acchiapparla. Eran già almeno due miglia e mezza che questa ragazzina veniva avanti appesa appesa alla carrozza. Dalla rabbia, Kanzō nella corsa frustava perfino il cavallo tanto amato.

La carrozza entrò in un paesino. Kanzō suonò forte la tromba e corse ancor di più. Quando si guardò indietro, la ragazzina stava correndo bella impettita coi capelli liberi sulle spalle. Dalla mano le penzolava una calza. Un attimo dopo la ragazzina doveva essersi appiccicata alla carrozza. Quando Kanzō si guardò alle spalle, oltre il vetro dietro la cassetta, per un istante intravide la ragazzina che si rannicchiava. Tuttavia la quarta volta che Kanzō saltò giù, la ragazzina camminava già staccata dalla carrozza.

«Ehi, fin dove vai?»

La ragazzina tiene gli occhi bassi e sta zitta.

«Hai intenzione di venire appesa così fino al porto?»

E la ragazzina sempre zitta.

«Fino al porto?»

La ragazzina annuì.

«Ehi, guardati i piedi. I piedi! Non vedi che ti sanguinano? Sei una con del fegato tu eh?»

Pe non smentirsi Kanzō fece la faccia scura.

«Dai, che ti faccio salire. Sali dietro! Che a star appesa lì il cavallo si stanca, sai. Se te lo chiedo io vieni su no? Non voglio mica esser preso per scemo, io.»

Disse, e le aprì lo sportello.

Poco dopo, quando Kanzō si voltò a guardare dal suo posto a cassetta, la ragazzina se ne stava buona buona, timida, a capo chino, senza neanche pensare a tirar via l’orlo del vestito ch si era preso nello sportello, e della faccia caparbia di prima non c’era più traccia.

Eppure, sulla via del ritorno dal porto, che era a due miglia e mezza da lì, si accorse a un tratto che la stessa ragazzina veniva dietro alla carrozza. Kanzō arrendevole le aprì lo sportello della vettura.

«Signore, non mi va di salir dentro. Non voglio salir dentro.» 

«Guarda il sangue dai piedi. Il sangue! Non vedi che hai le calze tutte rosse? Sei terribile, lo sai?»

Piano piano, su per la costa di cinque miglia, la carrozza si avvicinò al paesino di prima.

«Signore, mi fa scendere qui per piacere?»

Kanzō diede un’occhiata al ciglio della strada: un paio di scarpine erano sbocciate comefiori bianchi sull’erba secca.

«Porti scarpe bianche anche d’inverno?»

«Ma io, era estate quando son venuta qui.»

La ragazzina s’infilò le scarpe e, senza voltarsi. Come un airone tornò di volo al riformatorio sulla collina.

 

Kawabata Yasunari

(1899-1972)

Traduzione di Ornella Civardi.

“Le scarpette estive” (1926), da Racconti in un palmo di mano, in Romanzi e racconti, a cura di G. Amitrano, Mondadori, Milano, 2003, pp. 1095-1097.

 

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Una pagina di Kawabata per portarci in un villaggio sulla costa, in un tempo lontano, per farci viaggiare con la fantasia, mentre aspettiamo che passi la bufera. Coraggio a noi tutti!

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