Mukashi mukashi. Letture per farci compagnia. I cachi di Tanizaki.

Sakai Hōitsu (1761-1828), Cachi e fiori.

Non avemmo difficoltà a trovare la casa degli Ōtani. Si ergeva, con un tetto più maestoso degli altri, in mezzo a un campo di gelsi presso il fiume, a cinque o sei chō circa dall’inizio del villaggio. I gelsi erano così alti che da lontano tutto ciò che si scorgeva erano soltanto il colmo del tetto composto di rami di bambù e la gronda, ricoperta dalle tegole proprie di una casa antica, che sembravano volteggiare al di sopra del fogliame come un’isola nel mare: una vista magnifica. Ma di per sé era una semplice abitazione di contadini, molto più ordinaria di quanto il tetto facesse pensare. Aveva due stanze appaiate sul fronte che guardavano i campi. Gli shōji erano aperti, e nella stanza con il tokonoma sedeva un uomo di circa quarant’anni, il padrone di casa. Non appena ci vide uscì a darci il benvenuto, prima ancora che ci presentassimo. Il volto tirato e bruciato dal sole, lo sguardo mite negli occhi socchiusi, la testa incassata, le spalle larghe, era il ritratto del contadino semplice e onesto. «Ho saputo di voi dai Konbu di Kuzu e vi stavo aspettando», disse nel suo dialetto di campagna difficile da capire. In risposta alle nostre domande, si limitava a inchinarsi in modo formale senza dare una chiara risposta. La famiglia aveva certamente goduto momenti migliori, ma non rimanevano tracce del suo passato e una persona del genere mi andava più a genio.

«Ci rincresce di disturbarvi in un momento in cui avete tanto da fare. Ci hanno detto che di rado mostrate i cimeli di famiglia, ed è stato scortese da parte nostra capitare così all’improvviso per vederli». L’aria imbarazzata, accennò una timida risposta:«No, non è che non si voglia farli vedere… », poi spiegò che la tradizione  familiare richiedeva sette giorni di purificazione prima di poter esporre i cimeli. Ma oggigiorno è quasi impossibile attenersi scrupolosamente a una simile regola, ed egli era felice di accontentare chiunque ne avesse fatto richiesta benché in quel momento fossero molto occupati con i lavori dei campi e fosse loro difficile soddisfare visitatori inaspettati. In particolare in autunno, a causa della raccolta dei bachi da seta, si toglievano tutti i tatami della casa. Nessuna stanza sarebbe stata degna di ricevere dei visitatori inaspettati; ma bastava avvertirlo qualche giorno prima, e lui  si sarebbe occupato dei preparativi per accoglierli. […]

Da tutto ciò era chiaro che quel giorno, e proprio per noi, i tatami erano stati rimessi nelle due stanze; attraverso una fessura degli scorrevoli si vedeva che sulla nuda terra nella stanza adiacente erano stati ammassati alla rinfusa numerosi utensili. I cimeli erano già esposti nel tokonoma, e il padrone di casa li mise uno a uno cerimoniosamente davanti a noi […].

Stavamo per congedarci, quando il padrone di casa disse: «Non abbiamo molto da offrire, ma vi prego, gustate almeno degli zukushi…» Preparò il tè, tirò fuori un vassoio di cachi e dei portacenere vuoti, belli puliti.

Zukushi” doveva stare per jukushi, cachi maturi. E quello che avevamo preso per un portacenere si rivelò una piccola coppa nella quale mangiare il frutto così molle che pareva squagliarsi tra le dita. Seguendo il suo consiglio, ne tenni uno con cautela nel palmo della mano: grande, dalla forma appuntita, sembrava dover scoppiare da un momento all’altro. Era maturato sino a diventare un palloncino, ma splendido come giada quando visto alla luce del sole. I cachi in barile che si comprano al mercato* non raggiungono mai questa tonalità, anche se sono maturi, e si spaccano prima di diventare così molli. Il nostro ospite ci disse che solo i cachi dalla pelle spessa di Mino sono adatti a divenire zukushi. Raccolti quando sono ancora solidi e acerbi, vengono posti  in cesti o scatole in un luogo dove non ci sia il minimo alito di vento. Dopo una decina di giorni, senza intervento dell’uomo, l’interno si trasforma in un succo semiliquido, dolce come il nettare. Altri tipi di cachi diventano acquosi, non restano così densi come la varietà di Mino. Tolto il picciolo, lo si può mangiare intingendovi un cucchiaino, come fosse un uovo à la coque; però lo si gusta meglio se lo si mette su di un piatto, lo si pela e lo si mangia con le mani, anche a rischio di sporcarsi. Una decina di giorni sono necessari per giungere a questo stadio di bellezza e delizia, più avanti anche gli zukushi diventano acqua.

Ascoltavo, e guardavo una goccia di succo rosato cadutomi sul palmo della mano. Era come se il mistero e lo splendore delle montagne intorno vi si fosse solidificato. Avevo sentito dire che la gente di campagna che si recava a Kyōto, riportava a casa come ricordo una manciata di terra avvolta in un pezzo di carta. Se qualcuno dovesse chiedermi qual è il colore dell’autunno a Yoshino, credo che porterei con me qualche zukushi da mostrare.

Alla fine, quello che mi è rimasto più impresso della casa degli Ōtani sono stati proprio questi zukushi, non il tamburo o i documenti. Tsumura e io divorammo due di quei dolci, sciropposi zukushi a testa. Gustandone la frescura che scendeva dalle labbra al ventre, mi riempii la bocca dell’autunno di Yoshino. Neppure il frutto di mango dei testi buddhisti era forse così delizioso.

 

 Tanizaki Jun’ichirō

(1886-1965)

Traduzione di Adriana Boscaro.

 

Da: Yoshino (Yoshino kuzu, 1931), a cura di A. Boscaro, Venezia, Marsilio, 1998, pp. 75-81.

*Sono i tarugaki, cachi messi in barili con sake in modo che l’acidità dei frutti sia assorbita dall’alcool.

 

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Nella produzione di Tanizaki, Yoshino kuzu occupa una posizione particolare. Romanzo breve dalla trama sottile, quasi un pretesto, Yoshino kuzu è un viaggio attraverso una località cara al cuore dei giapponesi per le migliaia di ciliegi che costituiscono un panorama primaverile amatissimo e celebrato. Yoshino, però, è anche ben viva nell’immaginario collettivo giapponese per una molteplicità di motivi che Tanizaki rivela nel testo attraverso una tessitura complessa di riferimenti alla storia, alla leggende, alle tradizioni letterarie. Yoshino è certo un’opera anomala nella produzione dello scrittore ma vi è presente, com’è ben esemplificato dal brano che ho scelto, tutta la sensualità che ne caratterizza la prosa. Buona lettura!

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