Quella mattina d’agosto a Nagasaki…
alle colline circostanti e affacciata su una baia punteggiata di isolette. È il Giappone più meridionale, quello più vicino alla penisola coreana, ma ricco di influssi cinesi – dall’architettura arzigogolata dei templi, ornati di dragoni coloratissimi al piatto tipico, il chanpon, inventato nell’affollata Chinatown locale.
Bella, Nagasaki. Vista da qui, dalla collina trasformata in museo all’aperto, punteggiata dalle lussuose residenze dei commercianti inglesi di tè del secolo scorso, con le loro verande vista mare, le palme dal tronco contorto di un tipo che ci sembra di non aver mai visto altrove, i giardini a terrazze, i tavolini liberty dietro cui spunta la statua a grandezza naturale di un Puccini elegante e un po’ svagato (questa è proprio la collina da cui Madama Butterfly guarda ancora il porto laggiù, immortalata nella pietra mentre stringe a sé il suo bambino). Un angolo d’Europa che le frotte di turisti provenienti da ogni parte del Giappone amano visitare, fotografandosi e gustandone l’atmosfera per loro massimamente esotica a un tavolino di caffè, insieme a una fetta di castella, o meglio casutera, la morbida torta “tipo paradiso” lasciata qui dal passaggio dei Portoghesi.
Una città da gustare, Nagasaki. Magari ammirandovi la festa tradizionale del dragone, dai costumi e dall’atmosfera tipicamente cinesi, o guardandola dall’alto, dalla stazione della funivia sul monte Inasa, da cui, la notte, la città sottostante pare una copia di Hong Kong, ma in formato ridotto. Le luci sfavillanti e tutto il resto.Tutto questo, Nagasaki. Ma oggi, in questa mattina assolata, siamo venuti allo Heiwa Kōen, il Parco della Pace, sotto questo gigantesco tendone bianco che ci protegge da un sole a picco, quasi da tropici. Siamo venuti presto, la cerimonia inizierà solo alle 10 e 45, per trovare un paio di sedie in un angolo discreto, per non disturbare, quando la folla arriverà e occuperà questo spazio sterminato che si stende sotto la gigantesca Statua della Pace. Siamo entrati quasi in punta di piedi, nel Parco della Pace, circondando la fontana che ricorda per l’eternità l’arsura che colpì le vittime, passando sotto i metal detector e attraverso i filtri di polizia messi oggi per l’occasione. E l’occasione è la 54a Cerimonia della Pace di Nagasaki. Proprio qui, (siamo nel sobborgo di Urakami, da sempre centro della comunità cattolica della città, la più numericamente consistente del Giappone, dominato da una cattedrale finanziata e costruita nel 1914 da questi fedeli tenaci e in un secondo fatale crollata come un castello di carte), sì, proprio qui sopra si è steso il fungo diabolico, in quella tragica mattina del 9 agosto 1945. Erano le 11.02. E un B-29 americano si allontanò in fretta, dopo essersi liberato di quel carico di plutonio. E fu morte, distruzione, fuoco, tempesta di vento. E la pioggia nera che per tre giorni spazzò le rovine e i corpi straziati. Fu l’orrore indicibile. Tre giorni dopo Hiroshima.
Dire le cifre della disperazione, i morti, i feriti, le case distrutte, forse non ha molto senso. Gli hibakusha, i sopravvissuti, muoiono un po’ ogni giorno. Per lo strazio del ricordo gli uni, gli altri per le radiazioni o la leucemia o il cancro, vittime, ancora, reclamate dalla bomba vorace di carne umana, dopo ben cinquant’anni. Centocinquantamila e più furono le vittime, ma ne morirono altrettante a Tōkyō in una sola notte, sotto le bombe convenzionali, in quella notte di aprile del ’45 in cui la città fu rasa al suolo. Questa però è un’altra bomba, un altro orrore.
L’annientamento scientificamente progettato dell’essere umano. Era un esperimento, ora gli storici hanno documenti che lo provano. Il Giappone si era di fatto già arreso, restava solo da concordare lo status giuridico della figura dell’imperatore, ma restava anche una bomba da sperimentare. Certo, a Hiroshima quella all’uranio, a Nagasaki quella al plutonio. Perchè perdere l’occasione? È agghiacciante. E agghiaccianti sono queste foto di corpi straziati esposti sui pannelli che ci circondano.
Siamo in Giappone, e l’organizzazione perfetta è la regola, anche qui: ingressi disciplinati, sedie per tutti e, per prevenire malori causati dal sole cocente, distribuzione gratuita di lattine di tè gelato e di piccoli asciugamani ghiacciati che vengono offerti ad ognuno e generosamente cambiati ad ogni richiesta da signore sorridenti e gentili. Accanto a noi, gli operatori delle varie televisioni e i fotografi sono già al lavoro.
Pochi gaijin (stranieri), oltre a noi, una decina al massimo. Alle 10.45 la cerimonia ha inizio: la preghiera dei bonzi e dei sacerdoti shintoisti presso l’altare dedicato alle vittime, l’incenso bruciato e l’offerta di fiori e di acqua (per spegnere la sete senza fine delle vittime), poi i brevi discorsi del ministro della Sanità Miyashita, del sindaco Iccho Itō, di studenti, cittadini, altre autorità.E alle 11.02 precise, in piedi, ascoltiamo in silenzio il suono della sirena, che appare interminabile e accappona la pelle. Poi i rintocchi gravi della campana buddhista. Difficile raccontare l’emozione intensa di questo attimo.“È impossibile descrivere l’atrocità di questa esperienza; è impressa così chiaramente nella mia memoria che è come se fosse accaduta solo ieri – dice Yoshio Sugimura, rappresentante dei sopravvissuti – Rinnovo la mia preghiera, stando così di fronte agli spiriti di tutte le vittime della bomba atomica, che non si permetta che la loro morte sia stata vana. Finché una vera pace nel mondo non sarà raggiunta, noi ci appelliamo a gran voce alla gente del mondo, perché venga rispettato il principio antinucleare e ci si impegni per assicurare che Nagasaki sia l’ultimo posto sulla terra soggetto alla distruzione nucleare.”
“Vogliamo essere gli ultimi” – questo si sente ripetere da ogni parte, nei volantini distribuiti da gruppi di cittadini, nei discorsi ufficiali – “gli ultimi ad aver conosciuto sulla faccia della terra questo orrore”.
È il messaggio di Nagasaki, che aleggia su quest’assemblea di studenti in divisa, di anziani in carrozzella, di vecchiette dai capelli candidi e dal sorriso aperto che chiacchierano sotto gli ombrellini da sole, di uomini e donne di mezza età che recano fra le braccia le foto delle vittime dell’ultimo anno. Siamo qui per capire. Eppure sembra troppo grande questo dolore. Grande, tanto grande, che non può bastare neppure un nuovo millennio, per poterlo dimenticare.
Resterà per sempre vivo nelle nostre coscienze.
7 settembre 1999