Riannodiamo i fili (ma a modo mio)

Rieccomi. Mesi di silenzio, qui, che silenzio per me non è stato. La vita in mezzo. Tanti incontri vissuti finalmente guardandosi negli occhi, sorridendosi, parlandosi.

E poi un tempo di riflessione. Per decidere se continuare, se riannodare i fili di un discorso interrotto. E indagare sulle ragioni di questa svogliatezza che mi prende quando mi accingo a scrivere. E poi, invariabilmente, decido di soprassedere.

In questi mesi ho scritto un libro, ho tenuto lezioni, ho parlato della donna in Giappone con il pretesto di presentare Onibaba, ho risposto a interviste. Ho soprattutto continuato a studiare e a scrivere.

E perché, dunque, non qui? Riflettere su questo è anche riflettere sul proprio lavoro. Decidere se ha ancora un senso andare controcorrente, denunciare tutta l’insensatezza di presentare la cultura giapponese spalmandola di quella melassa appiccicosa che è il tono svenevole adottato oggi per presentare il Giappone, il paese “perfetto”, fatto di marzapane e zucchero filato. Un paese che esiste solo nell’immaginario ma che fa vendere.

Il Giappone trasformato in un prodotto di consumo. Di cui si ignora la realtà perché non interessa. Tutto questo non mi appartiene. Lo trovo stomachevole.

“Come? Non vuoi guadagnare anche tu vendendo un po’ di Giappone un tanto al chilo?” No, non l’ho fatto fino a oggi. Non lo farò ora.

Quindi, se a qualcuno interesserà che continui a parlare di cultura giapponese come ho fatto finora, “fuori dai sentieri battuti”, bene. Ci sono.

Altrimenti chiudiamola qui.

Lo tsuzumi e i suoi colori. Hida Furukawa, aprile 2019.