Mukashi mukashi. Letture per farci compagnia. Da un piccolo eremo.

Suzuki Shōnen (1848-1918), Eremo.

Solo nel mio provvisorio riparo si sta in pace e senza timori. È piccolissimo, ma un giaciglio per coricarsi la notte c’è, un posto per starsene seduti comodi di giorno anche, e per ospitare una sola persona non manca nulla. Il paguro bernardo ama i piccoli gusci di conchiglia, perché conosce i pericoli che possono capitare all’improvviso. L’ossifraga vive su costiere desolate, perché paventa l’uomo. Così son io: conosco bene il mondo, quindi non ho ambizioni di sorta, non m’affanno per nulla. Quel che desidero è vivere tranquillo, la mia felicità sta nel non avere afflizioni.

Non sempre è detto che gli uomini costruiscano casa per se stessi. Alcuni la costruiscono per mogli, figli e parenti, altri per amici e conoscenti stretti; altri ancora per ricevervi i propri superiori o maestri, ospitarvi le proprie ricchezze, quando non addirittura tenervi buoi e cavalli. Io questa casa l’ho costruita per me, non l’ho edificata per gli altri. Perché, date l’attuale situazione sociale e la mia condizione personale, non ho famiglia con cui vivere, né gente al seguito su cui dipendere: dunque, chi mai ci ospiterei, chi ci dovrei far vivere, se anche me la fossi costruita grande?

In genere, nei rapporti d’amicizia si dà importanza al censo, si privilegiano modi cortesi; non di necessità si amano le persone per la loro rettitudine e delicatezza d’animo. Nulla di meglio, allora, che prendersi ad amici la musica, la luna e i fiori di ciliegio. I servitori mettono in primo piano il numero delle ricompense e l’entità dei favori che ricevono: non conta per loro l’esser trattati bene e con amore, il poter vivere al sicuro e tranquilli. Nulla di meglio, allora, ch’esser gli umili servi di se stessi. Basterà che, quando c’è qualcosa da fare, lo si faccia da sé. Non che questo non riesca alle volte noioso o pesante, ma è più agevole che impiegare gente al proprio servizio e doversi preoccupare di loro. E se occorre andare a piedi da qualche parte, si va a piedi. Sarà dura, ma sempre meglio che dover ammattire vuoi per la sella vuoi per il cavallo, per i buoi o per la carrozza.

Ho diviso il mio corpo in due, [assegnando alle due parti] una funzione diversa ciascuna. Servitore le mani, veicolo le gambe, entrambi fanno esattamente ciò che voglio. Poiché il corpo risente delle sofferenze dello spirito, quando sono in  pena lo lascio riposare, se mi sento in forma, invece, lo uso. Dico “lo uso”, ma senza oltrepassare il limite. Se, stanco, starà senza far nulla, ciò non turberà il mio cuore. Ma certo, camminare di continuo, esser sempre al lavoro mi rinvigorisce. E perché mai dovrei starmene in ozio a poltrire? Far penare gli altri [al nostro posto] è peccato, quindi non vedo motivo di far ricorso al loro aiuto. Lo stesso dicasi per cibo e vestiario. Mi copro con quello che capita a tiro: indumenti di scorza di fuji* intrecciato e tinto, coltri di canapa per la notte; i tuberi di campo o la frutta degli arbusti sulla cima son tutto quel che basta al mio magro sostentamento. Poiché non vedo persona, non provo vergogna, né ho mai a pentirmi del mio aspetto esteriore e siccome il cibo è scarso riesco ad assaporare come un dono prezioso anche quello più umile. Non è in spregio ai ricchi che parlo di queste gioie: sto solo raccontando di me, paragonando la mia vita di un tempo a quella di adesso.

Dunque, la realtà non è che [un’illusione] dello spirito, e se lo spirito è inquieto a nulla vale possedere cavalli ed elefanti, e le sette rarità,* scompare il desiderio d’avere palazzi o padiglioni. Questa solitaria dimora, questo piccolissimo capanno, io l’amo. Quando mi reco alla capitale mi vergogno d’esser diventato come un mendico, ma, di ritorno qui, mi fa pena l’agitarsi degli altri per le piccolezze del mondo. E se qualcuno dubita di quel che dico, pensi alla condizione dei pesci e degli uccelli. I pesci non sono mai stanchi di stare nell’acqua, pure, non si può capire come si sentono se non si è dei pesci. Gli uccelli vogliono vivere nei boschi, ma se non si è uccelli non si può comprendere perché vogliano viverci. Così è quello che provo io per questo mio quieto ritiro: nessuno potrà mai capirlo senza esserci vissuto egli stesso.

 

Kamo no Chōmei

(1153-1216)

 

Traduzione di Francesca Fraccaro

Da: Ricordi di un eremo (Hōjōki, 1212 ), Venezia, Marsilio, 1991, pp. 73-77.

*Fuji, ossia fibra di glicine.

**Espressione dell’epoca che stava a significare “ogni genere di tesori”;  di origine buddhista.

 

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Capolavoro della cosiddetta “letteratura di romitaggio”, lo Hōjōki di Kamo no Chōmei, come tutti i classici, del resto, mi sembra che sia un testo che abbia ancora molto da dire, soprattutto in tempi come questi. Un invito a dare il giusto valore alle cose, a vivere meglio con meno, a cambiare il nostro modo di guardare il mondo e la nostra vita: Chōmei racconta di sé e della sua scelta di vivere fuori della capitale quando guerre, terremoti ed epidemie rendono sempre più evidente il senso di  precarietà ed incertezza. Le sue sono parole quanto mai valide per noi, oggi.