Mukashi mukashi. Letture per farci compagnia. Peonie a Honjo.

Utagawa Hiroshige (1787-1958), Peonie, dalla serie Giardini di fiori nelle quattro stagioni (Shiki no hanazono), 1847-1852.

Cogliendo al volo l’occasione, la geisha Koren e io, salimmo sul traghetto espresso ai piedi del ponte Ryōgoku, per andare a vedere le peonie a Honjo. 

Era ormai la fine di maggio e forse le peonie erano già sfiorite. Ci eravamo incontrati per caso la sera prima a teatro e avevamo trascorso insieme la notte nella casa di appuntamenti di Daichi. Quella mattina avevamo intenzione di rientrare presto, ma la pioggia ci aveva bloccato. Dovemmo aspettare il primo pomeriggio perché il cielo si schiarisse. Dopo essere rimasti reclusi tutto il giorno in una piccola stanza, appena uscimmo in strada tirammo un respiro di sollievo. Attraverso le fila di case, sui nostri visi ebbri giungeva dal fiume la brezza della sera di una frescura indicibile. Sul ponte Yanagi ci venne naturale di sostare un attimo, appoggiati al parapetto. 

La giornata ci parve all’improvviso più lunga del solito, forse perché aveva appena smesso di piovere. Cumuli di nuvole passavano e ripassavano di continuo nel cielo: sembrava di vedere le nuvole di un dipinto della scuola Kanō vorticare sul tetto di un tempio. Tra uno spiraglio e l’altro, spazzi di azzurro abbagliante e intenso, belli come i raggi del sole al tramonto che svanivano pian piano. La superficie dell’acqua del canale Kanda, di un color verde bottiglia nelI’ora dell’alta marea, brillava come una lastra di vetro appena pulita, illuminata dagli ultimi raggi obliqui del sole che declinava dietro il lontano bosco del tempio. La distesa del fiume che si apriva davanti a noi, a partire dalla foce ove convergevano le chiatte e le piccole barche, rifletteva i colori della sera sullo sfondo lontano e ci abbagliava. I rami folti dei salici ricadevano sulla cinta di pietre squadrate e, ondeggiando senza sosta al vento, comunicavano un un senso di melanconia e di quiete. Anche il suono degli esercizi allo shamisen, nelle case da geisha lungo la riva, era ora cessato. Tutt’intorno, le nuvole, in contrasto con l’avanzare del buio della sera, si facevano di momento in momento  più chiare; nel loro biancore risaltavano anche i visi dei passanti e le righe dei loro kimono. La pioggia aveva lavato via lo sporco e la città dava una sensazione piacevole di lindore e di calma. Le donne di ritorno dal bagno pubblico, con in mano gli oggetti da toilette, incrociandosi per via scambiavano qualche battuta. Le nuche spiccavano bianche fino all’incredibile. Si vedevano già i pipistrelli svolazzare e, subito dietro, i bambini che li inseguivano. Si udiva, vicino e incessante, lo sferragliare del treno e da lontano invece giungeva la lunga eco delle sirene delle navi a vapore. Dal terzo piano del Kamesei, il cui grande tetto aggettava sull’acqua, arrivava il suono degli shamisen che intonavano all’unisono le note. Al dì fuori dalla cinta di legno del Ryūkotei, ancora intrisa di pioggia, erano fermi i due risciò laccati di fresco, i gradini rivestiti di pelliccia. Una geisha con un kimono a disegni e la sua apprendista con uno yūzen* dai colori accecanti, oltrepassarono a passi veloci il cancello ricoperto dai rami di un salice. I passanti si voltavano incuriositi. 

«Andiamo», disse Koren. 

Mi incamminai lungo la grande strada in direzione del quartiere Ryōgoku: «Vai subito a casa? Prendiamo il risciò?». 

Lei scosse il capo e di fretta tirò dritto. 

Allungai il collo più che potei per vedere il cielo che dalla grande strada si apriva verso il fiume. Di qua dal ponte c’era molta confusione: viavai di tram, gente che aspettava di salirvi, carri che passavano sull’alta riva, il tutto immerso nell’odore di cucina dei ristoranti vicini. Ebbi in quell’istante, all’improvviso, la netta sensazione che ci fosse un divario di incomunicabilità tra me, che uscivo con una donna da una casa di appuntamenti, e questo mondo che, frenetico, incalzava il tempo. Guidati da diversi destini ci muovevamo in direzioni diverse. Sensazione datami forse dalla calma che si impadronisce di me ogni sera al tramonto. Ma non so perché quella calma si tramutò poi in sconforto e mi prese un’indicibile tristezza. Non è che mi dispiacesse separarmi da lei o che provassi rimorso per aver trascorso una giornata nella lussuria. E non è che lo scorrere dell’acqua mi desse qualche particolare emozione. Semplicemente, mi accorsi di aver già provato ognuno di quei piaceri artificiali che allettano I’uomo nato in città. Per un attimo riandai col pensiero a tutti i sogni vissuti. 

«Attenta!», la presi sottobraccio e attraversammo le rotaie del tram; Koren lesse allora l’indicazione sulla riva del fiume. “Traghetto espresso per le peonie, quarta fermata, adulti quattro sen”. 

[…]

Il marinaio mi chiamò quando la barca, infilandosi fra le chiatte, arrivò all’attracco. Sulla riva, tra i magazzini, c’era un approdo e al di là si vedeva il parcheggio dei risciò. Scesi a terra, subito oltre una stretta stradina, sul cancello dello steccato del tempio Keniin c’era un cartello con scritto “Giardino delle peonie”.
In quella squallida periferia c’era molta umidità e la strada era alquanto fangosa. Cercando di evitare le pozzanghere entrammo dal cancello e camminammo lungo il giardino di pietra ove erano allineati grandi vasi con vecchie piante. Il giardino interno era già tutto buio, la luce della sera interrotta da una bassa tettoia di canne, riparo per la pioggia. Appena le inservienti accesero le lampade, i fiori delle peonie piantate in lunghe fila fluttuarono diafani alla luce fioca e giallastra dei lumi e al chiarore del crepuscolo. Molti fiori erano già caduti. E quelli che ancora restavano sulle piante avevano perso il loro colore e il loro fascino, i pistilli anneriti e sfatti. Da ogni petalo avvizzito respirava un senso di profonda fatica e di stanchezza per essere stato tenuto in fiore per forza: ci fosse stata in quel momento la luce forte del sole o una leggera brezza, sarebbero già caduti tutti a terra. Nel nostro cuore si agitava proprio una sensazione simile a questa. Mentre stavamo li impalati a guardarli, benché non ci fosse vento né rumore di passi, i fiori perdevano i loro petali pesanti, uno qua, un altro là, di continuo, come si fossero messi d’accordo. Uno si fermava sopra una foglia scura, un altro scivolava nell’ombra delle fronde dove la luce della lampada non arrivava a illuminare. Era un’ora tarda e la stagione era finita: per questo eravamo i soli. Fuori, lungo la riva, si sentiva a tratti il chiasso dei bambini farsi più forte come se il loro numero stesse aumentando. 

«Le peonie di Honjo… è tutto qui?»,
«I luoghi famosi sono sempre una delusione». «Torniamo indietro?».
«Torniamo». 

[1909] 

 

Nagai Kafū

(1879-1959)

 

Traduzione di Luisa Bienati.

Da:  “Al giardino delle peonie” (Botan no kyaku), in Al giardino delle peonie e altri racconti, Venezia, Marsilio, 1989, pp. 99-108.

*Si intende  un kimono tinto secondo la tecnica di tintura a riserva con amido di riso yūzensome.

 

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Cantore della Tōkyō di un’epoca lontana, appassionato frequentatore del mondo “dei fiori e dei salici”, Nagai Kafū sembra riportarci in queste pagine indietro nel tempo, all’Edo scomparsa e tanto amata, con il quartiere dei piaceri, le arti tradizionali delle geisha, le piccole strade, i traghetti e i giardini di fiori. Ma le rotaie del tram, lo squallore del vecchio quartiere e la caduta dei petali delle peonie raccontano invece della fine di un’epoca. Il sogno di un giardino si tramuta nella delusione che offrono “i luoghi famosi”(meisho), quei meisho che tanto appassionavano i cittadini di Edo.