Mukashi mukashi. Letture per farci compagnia. Attualità di Kenkō .

Autore sconosciuto, Monaco, 1830 circa.

 

È stolto angosciarsi per tutta la vita, senza avere neanche un attimo di pace, asserviti al desiderio di fama e profitto. Se si possiedono grandi ricchezze, si ha minor cura di se stessi e ciò contribuisce a procurare danni e attirare guai. Quando poi si passa all’altro mondo, anche se si è accumulato tanto ora da sostenere l’orsa Maggiore, ciò porterà problemi e preoccupazioni per quelli che restano.

Tutte le cose che fanno gongolare gli stolti non hanno alcun valore: grandi carri, cavalli ben pasciuti, ornamenti fitti di gemme e ori, all’uomo avveduto sembreranno ancor più tutte sciocchezze. Bisogna buttar via l’oro tra i monti, e gettare le gemme nelle forre. Chi si smarrisce nella ricerca del profitto materiale è la persona più stolta che ci sia.

È auspicabile cercare di lasciare ai posteri un nome imperituro: ma è forse sufficiente essere nobili o insigni per rango per aver fama illustre? Anche chi è stupido o inetto, se nasce in una famiglia altolocata o incontra un’occasione propizia, può raggiungere ranghi elevati e vivere nel lusso più sfrenato. Tra i grandi saggi e tra i santi, molti sono coloro i quali hanno invece accettato un’umile posizione, e sono morti così, senza aver mai incontrato il favore dei tempi. Quindi è stolto essere ossessionati dal desiderio di cariche e ranghi importanti.

Vorremmo poi avere fama ineguagliata proprio per la nostra sapienza o per lo spirito ma, a ben considerare, vedremo che l’amore per la fama non è altro che compiacersi delle opinioni altrui. Ma sia chi loda, come chi critica, non rimane al mondo in eterno. Coloro inoltre che di quella fama hanno avuto solo un indiretto sentore, presto lasceranno a loro volta questo mondo. Di chi quindi temere il giudizio, di chi auspicare l’ossequio?

Infine la fama è fonte di critiche. Ammesso che il nostro nome ci sopravviva, non servirebbe a niente. Anche nutrire un simile desiderio quindi è stolto. Se poi dovessi dire qualcosa a chi ricerca con pervicacia il sapere e aspira alla saggezza, vorrei ricordare che quando il sapere si mostra, lì c’è la menzogna. Il talento è frutto di passioni, e quanto ci è stato tramandato dagli altri, quanto gli altri ci hanno insegnato, non è vero sapere.

Cosa quindi dovremmo chiamare “sapere”? Positivo e negativo in realtà sono una cosa sola. Cosa dovremmo chiamare “bene”? L’uomo vero non ha virtù, non ha sapere, non ha merito, non ha nome. Chi mai potrà riconoscerlo, chi racconterà di lui? Ciò però non vuol dire che nasconda la sua virtù e si comporti da folle: il fatto è che si trova al di là delle distinzioni tra saggezza e follia, tra perdita e guadagno. Se quindi con l’animo smarrito si inseguono fama e profitto, ecco qual è il risultato.

Qualsiasi cosa si faccia, è tutto vano: non serve discuterne, né nutrire alcuna di queste ambizioni.

 

 

Kenkō Hōshi

(1283?-1350?)

 

Da Ore d’ozio. Tsurezuregusa, a cura di Adriana Boscaro, Marsilio, Venezia,  2014, pp.  58-59.

Traduzione di Luisa Randazzo, rivista da  Inagaki Kiyoko e  Asai Tomoko.

 

🍁🍁🍁

Ancora una volta il monaco Kenkō, nelle sue riflessioni oziose che seguono il ritmo del pennello, si rivela un impagabile osservatore della natura umana. E i suoi pensieri ci sembrano avere ancora qualcosa da dirci.