Sguardi, visioni. Letture per farci compagnia. Love-hotel.

Dalle parti di Kagurazaka. Tōkyō, novembre 2015.

 

Ci ritrovammo nel quartiere dei love-hotel. Amavo quel luogo consacrato all’amore fisico, ma un amore fantasmatico, come sublimato da questi trompe-l’oeil che gli servivano da decoro, immaginato da un Eros un po’ bizzarro. Gli hotel si susseguivano su una collina dalle viuzze tortuose, che sbucavano su vicoli ciechi, degli slarghi dietro i palazzi dove si intersecavano gli stili, cubi di cemento dalle facciate di marmo, palazzi ottomani, colonne classiche, padiglioni tipo Trianon. La notte scintillava di insegne dai nomi stravaganti; c’erano degli ingressi complicati che occultavano di colpo le coppie. I muri erano decorati da false finestre rischiarate obliquamente, da cortine piene e colorate, un po’ come quelle case in cartone dei calendari dell’Avvento di cui i bambini aprono giorno dopo giorno le finestrelle, fino alla meraviglia del 24, con il salone addobbato, l’albero e i giochi. Si sarebbero allora viste, dietro le finestre, non la gioia delle famiglie e del Bambin Gesù, ma, in quelle alcove, la celebrazione di un rito i cui sacerdoti erano gli stessi officianti: una serie di scene d’amore, delle passioni colpevoli o innocenti, giocate da questi uomini e queste donne riuniti dal caso sotto lo stesso tetto, comunità complice e ignorante dell’altro, ritiratasi dal mondo esterno per celebrarvi il suo desiderio.

Da tutto il quartiere emanava un’atmosfera sensuale, leggera e naturale, che contrastava con quella che scaturisce dalla violenza e dalla morte dei luoghi di prostituzione. Non si veniva qui per vendere il proprio corpo, ma vi si veniva ad acquistare un’intimità su cui si era convenuti in anticipo, anche se, a volte, si pagava per non godere. Si incrociavano delle coppie all’uscita dei loro incontri, pagati di fresco, lui che accendeva una sigaretta, lei che reprimeva un tossicchio; dei giovani amorosi a volte sazi, a volte distanti. Se ne vedevano altri, al contrario, tutti interi nel loro desiderio trattenuto, che camminavano di fretta verso la camera dell’amore, altri che ritardavano il momento della loro reciproca scoperta, o che intraprendevano un  percorso familiare. La maggior parte erano giovani. Certi passeggiavano, ridendo, estasiati davanti alle facciate. Ce n’erano di seri, che andavo come si va alla messa, testa bassa, la trousse da toilette sostituiva il messale Ma la maggior parte faceva un giro prima di decidersi, valutando i servizi offerti dal mercato, comparando i prezzi affissi sui muri, valutando i meriti rispettivi delle architetture a soddisfare i loro fantasmi.

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Una volta aggirato lo schermo murale che nascondeva l’entrata degli hotel (come fanno, nello spazio interno delle case giapponesi, quei pannelli di legno intrecciato e su piedini posti nel vestibolo)*, era come se entrassimo a casa nostra, sollevati dal lasciare il vortice della città per uno di questi pied-à-terre scelti a caso, moltiplicabili a seconda della voglia, nei quali un protocollo immutabile, un quadro stereotipato, che veste di banalità ogni bizzarria, tagliava corto con la necessità singolare del nostro duo. Si sceglieva una camera indicandola, su un tabellone di foto, una di quelle che aveva il segnale rosso acceso. Subito, da uno sportello dal vetro opaco, una mano tendeva una chiave. Al piano il numero lampeggiava. Quando si scendeva, il prezzo era già comparso su uno schermo. Si ripetevano i gesti all’incontrario; a volte un refolo d’aria spostava la mia banconota. Questo macchinario funzionava come un falansterio in cui nessun minuto andava sprecato, metà clinica, con i suoi carrelli di lenzuola e di trousse sterilizzate  che circolavano nei corridoi, metà prigione con quella rete panottica di sorveglianza che sembrava circondarci da ogni parte. L’intimità non era senza dubbio nella stanza, ci si faceva beffe di essa. Dietro la porta c’erano due paia di pantofole e uno spazio in cui niente era previsto per dei bagagli, ma in cui il letto e la vasca da bagno sembravano sovradimensionati. C’era di che restare occupati: televisione, cassette, karaoke, frigorifero, piastra elettrica, tutti gli elementi per rianimare un impotente – delle immagini stimolanti, un microfono per canzoncine, del whisky per l’audacia, del caffè per riprendersi. La testata del letto era una vera e propria plancia di comando che si manipolava a caso: giochi di luci e di specchi, variazioni musicali, vibrazioni e ci si involava per Citera, in gruppo, colonie di cloni le cui immagini frazionate si agitavano attorno a noi.

 

 

François Laut

(n. 1953)

 

Da: Aï (l’amour), Paris, Serpent à plumes, 1994, citato in: Michaël Ferrier (ed.), Le goût de Tokyo, Paris, Mercure de France, 2008, pp. 105-108.

La traduzione dal francese è mia.

*Si riferisce ai paraventi a singola anta e su piede chiamati tsuitate.

 

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Scrittore parigino con madre ginevrina, François Laut è stato docente di storia e ha insegnato in Francia e all’estero. Ha vissuto in Giappone dal 1989 al 1998 e nel suo primo romanzo ha descritto la vita di un espatriato francese a Tōkyō, città che ama ma di cui non manca di denunciare i lati oscuri. In questo brano, tratto dal suo (l’amour), Laut descrive i love-hotel, uno dei luoghi che più lo intrigano, come “grandi navi salpate nella notte di Tokyo, in lontananza, per un viaggio illusorio”.