Mukashi mukashi. Contro l’epidemia, leggiamo! Oggi per noi lo scrittore e il Fuji.

Il Fuji dietro alla stazione di Kawaguchiko, aprile 2017.

[…] Un giorno, dopo aver ritirato la posta all’ufficio di Kawaguchi come sempre ero sballottato dal pullman lungo la strada di ritorno alla pensione. Una donna pallida e dall’aspetto piacevole, di circa sessant’anni, sedeva compostamente proprio al mio fianco; indossava un vestito marrone scuro e assomigliava molto a mia madre. La fattorina, come se si fosse improvvisamente ricordata di noi, disse: “Signori e signore, oggi il Fuji si vede molto bene.”

Non era una spiegazione e neppure una considerazione piacevole. I passeggeri – un giovane impiegato con lo zaino in spalla, una donna dai capelli sontuosamente acconciati, che sembrava una geisha e che indossava un abito di seta e si copriva accuratamente la bocca con un fazzoletto – ruotarono il corpo sporgendo contemporaneamente la testa dal finestrino, e guardarono quella monotona montagna triangolare come se fosse la prima volta. “Ah! Oh! Ahh!” esclamarono con voce stupida. Per un po’ ci fu agitazione nel pullman.

La donna anziana al mio fianco, invece, forse perché avrà avuto una profonda pena nel cuore, a differenza degli altri passeggeri, non diede nemmeno un’occhiata al Fuji. Rimase a fissare il precipizio che, sul lato opposto, costeggiava la strada di montagna. Il suo atteggiamento mi colpì talmente da paralizzarmi. Volevo mostrare anch’io a quella donna un nobile, vuoto cuore che non guarda il Fuji, quella volgare montagna; farle vedere, con un gesto di simpatia che pur non mi era chiesto, che ben capivo la sua angoscia, la sua tristezza. Mi avvicinai un poco a lei come per darle conforto, e con il suo stesso atteggiamento fissai vagamente il precipizio. Non so perché ma, forse rassicurata dalla mia presenza, l’anziana donna mi disse distrattamente: “Guardi. Una primula gialla” e m’indicò con il dito sottile un punto sul ciglio della strada. Il pullman proseguì veloce, ma nei miei occhi ancora oggi rimane vivo il ricordo di quell’unica primula gialla e del colore dorato dei suoi petali, la primula che si ergeva ritta, coraggiosa, quasi con forza erculea, e fronteggiava orgogliosamente i 3778 metri del Fuji senza muovere un petalo. Le primule ben si accordano col Fuji.

Il giorno prima della partenza, seduto su una sedia della pensione, con indosso due dotera (soprakimono imbottiti) sovrapposte, stavo sorseggiando del tè bollente quando dal tunnel arrivarono ridendo due ragazze dall’aria intelligente, forse dattilografe, che indossavano dei cappotti. D’un tratto si trovarono davanti agli occhi il Fuji bianchissimo e si arrestarono come colpite. Dopo una specie di consultazione segreta, una delle due, quella dal colorito più chiaro, che portava gli occhiali, si rivolse a me con un sorriso: “Mi scusi, potrebbe per favore scattarci una foto?”

Non sapevo cosa fare. Non so usare una qualunque macchina, non ho affatto interesse per la fotografia e, come se non bastasse, indossavo due dotera. Le stesse persone della pensione, ridendo, mi avevano detto che sembravo un bandito di montagna. Consapevole del mio squallido aspetto, ero terribilmente confuso da una simile richiesta da parte di due ragazze così vivaci che forse provenivano da Tōkyō. Tuttavia riflettei che, nonostante il mio aspetto, agli occhi di un estraneo poteva forse apparire in me qualcosa di delicato, e potevo forse sembrare capace almeno di premere il pulsante di una macchina fotografica. Spinto da quest’emozione, fingendomi calmo, presi la macchina fotografica che la ragazza mi porgeva e, dopo aver chiesto come scattare la fotografia, guardai attraverso la lente con fare disinvolto. Vidi, al centro, un grande Fuji; sotto, due piccoli papaveri. Le ragazze indossavano dei cappotti rossi. Avvicinandosi l’una all’altra come per stringersi bene, assunsero un’espressione compunta. Facevo fatica a non ridere e le mani che reggevano la macchina fotografica mi tremarono un poco: non c’era niente da fare. Trattenendomi, guardai nel mirino: i due papaveri erano ancora più seri ed impettiti. Mi era molto difficile inquadrare il soggetto, e allora eliminai le ragazze dall’obbiettivo e lo riempii completamente con il solo Fuji.

Arrivederci Fuji, e grazie di tutto. Scattai la fotografia.

“Ecco fatto.”

“Grazie.” mi risposero contemporaneamente le voci delle due ragazze. Tornate a casa, avrebbero fatto sviluppare la foto e sarebbero rimaste sorprese. Sarebbe apparso solo il Fuji, grande. Di loro nessuna traccia.

Il giorno seguente lasciai la montagna. Mi fermai una notte in una locanda di Kōfu. L’indomani, appoggiato alla sporca ringhiera del corridoio, guardai il Fuji. Da dietro le altre montagne si scorgeva ormai solo un terzo della sua faccia.

Sembrava un fiore di hōzuki.*

 Dazai Osamu (1909-1948)

Traduzione di Carla Erzingher.

Da Le cento vedute del Fuji (Fugaku hyakkei, marzo 1939), in Mediante. Trimestrale di letteratura, Anno 2-3, n°8/9 (1986/87), pp. 59-61. 

*Hōzuki è l’alchechengi.

🗻🗻🗻

Personaggio anticonvenzionale e scrittore di grande sensibilità, Dazai Osamu riesce a regalarci qui un quadro inedito e riccamente sfumato del suo rapporto con il Fuji. Una pagina da assaporare con un buon tè, in attesa di poter riprendere le attività quotidiane. Trovata su una vecchia rivista universitaria, l’ho voluta ricopiare per voi. Buona lettura!

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