Mukashi mukashi. Letture per farci compagnia. Saluto senza parole.

Hirezaki Eiho, Bellezza del pruno, 1914.

Era ormai settembre, il periodo in cui riprendevamo le lezioni all’Università, e frotte di studenti tornavano dai loro paesi alle pensioni del quartiere di Hongō. 

La mattina e la sera l’aria rinfrescava, ma le giornate a volte erano ancora piuttosto calde. In casa di Otama le tendine di bambù ancora verde, che avevano sostituito quelle del trasloco, non avevano avuto il tempo di scolorire, e chiudevano ermeticamente all’interno, dall’alto in basso senza lasciare interstizi, la grata in bambù della finestra a balconcino. Lì dietro, Otama si annoiava a morte. Appoggiata a un infisso, alla cui estremità superiore si trovava un incavo con infilati alcuni ventagli ornati da disegni di Gyōsai e Zenshin, osservava la strada con occhio distratto. Dopo le tre era la volta degli studenti in gruppi di tre o quattro. Al loro arrivo, ogni volta, dalla casa dell’insegnante di cucito si levavano assai più vivaci e festose e voci delle ragazze, simili al cinguettio dei passeri. Attratta da quel brusio, di tanto in tanto anche Otama dava un’occhiata in strada per vedere chi stesse passando.

Sette-otto su dieci degli studenti del tempo erano di quei tipi gagliardi che in seguito vennero definiti “progressisti”,* e quasi mai avevamo l’aria di gentiluomini, tranne quelli che erano prossimi alla laurea. I bei ragazzi dal colorito pallido e dai tratti regolari apparivano un po’ leggeri e snob, e non ispiravano grande simpatia. Quanto agli altri, poteva darsi che tra loro si trovasse qualcuno che eccelleva negli studi, ma a occhi femminili apparivano tutti ugualmente rozzi e privi di attrattive. Malgrado ciò, non passava giorno senza che Otama osservasse il viavai degli studenti sotto la sua finestra. Un giorno sentì nascere nel suo cuore un qualcosa che la lasciò senza parole. Fu sorpresa dall’improvvisa comparsa di un insieme di fantasie che dovevano aver preso forma e trovato alimento nel suo inconscio già da tempo.

Non avendo altro scopo nella vita che quello di rendere felice suo padre, Otama aveva fatto di tutto per convincerlo, lui così rigido e severo, quando aveva accettato di diventare una mantenuta. Considerando che per forza di cose doveva in qualche misura svilirsi, cercava una sorta di consolazione nel lato altruistico del suo gesto. Venuta però a sapere che l’uomo che credeva un gran signore non era altro che un usuraio, la vita divenne per lei troppo crudele. Perciò, non riuscendo da sola a scacciare quell’indefinibile pena che le pesava sul cuore, aveva [sic!]** voluto aprirsi al padre perché potesse dividerla con lei. Ma quando aveva visto com’era serena la sua nuova vita nella casa di Ikenohata, le era mancato il coraggio di versare anche una sola goccia di veleno nella sua tazza di tè. Per quanto grande fosse la sua sofferenza, decise di tenere il dolore dentro di sé; presa questa risoluzione Otama, che fino a quel giorno si era sempre affidata a qualcuno, si sentì per la prima volta indipendente. […]

Anche se accoglieva Suezō in modo sempre molto caloroso, in realtà si andava estraniando da lui. Non si sentiva più in debito per il fatto che la manteneva, né riconoscente per la cura che si prendeva di lei; sentiva che era ormai inutile darsi pena per lui. Al tempo stesso, pur non avendo ricevuto nessun tipo di formazione o di educazione, capiva quanto frustrante sarebbe stato dover finire i suoi giorni come un trastullo nelle mani di un uomo simile. Per questa ragione aveva preso a osservare il passaggio degli studenti sotto la sua finestra, arrivando a immaginare che un giorno un giovane e fido cavaliere l’avrebbe tratta in salvo dalla sua attuale condizione. E quando di colpo prese coscienza di tali fantasticherie ne rimase sconcertata.

Lo sguardo che Otama incrociò in quel particolare momento fu quello di Okada. Non era alla fin fine che uno dei tanti studenti che passavano sotto la sua finestra, eppure notò che, nonostante fosse un bellissimo ragazzo dalla guance rosee, non sembrava fatuo e neppure pieno di sé e, senza un motivo, cominciò a credere che fosse dotato di una personalità notevole. Da allora si ritrovò ad aspettare il suo passaggio ogni volta che guardava la strada.

Non ne conosceva ancora il nome, né sapeva dove abitava, ma quando i loro sguardi si incrociavano Otama provava nei suoi confronti un sentimento spontaneo di intimità. Un giorno all’improvviso gli rivolse un sorriso, ma non si trattò che di un istante in cui i nervi avevano ceduto ed ella aveva perduto il controllo di sé: timida per natura, non avrebbe mai avuto il coraggio di tentare un approccio deliberato.

Quando Okada per la prima volta la salutò togliendosi il berretto, sentì che il cuore le balzava in petto e avvampò di rossore. Le donne hanno un intuito straordinario. Otama sapeva per certo che non se l’era tolto di proposito, ma per un impulso improvviso. Era però raggiante di felicità per questo rapporto muto e incerto, nato al di là della tendina di bambù, e che segnava per lei l’inizio di una nuova époque. Perciò nella sua fantasia non si stancava mai di rivedere l’atteggiamento di Okada nel preciso istante in cui le aveva rivolto il saluto.

Mori Ōgai

(1862-1922)

 

Traduzione di Lorenzo Costantini.

Da: L’oca selvatica (Gan, 1915), Venezia, Marsilio, 1994, pp. 126-129.

*Erano definiti così gli attivisti e i militanti del Movimento per le libertà e i diritti civili che,

all’inizio del periodo Meiji, chiedeva l’adozione di un sistema  parlamentare democratico.

** Avrebbe voluto.

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Mori Ōgai non ha certo bisogno di presentazioni: fu un intellettuale che svolse un ruolo di assoluta rilevanza nel panorama delle lettere giapponesi a cavallo fra Ottocento e Novecento capace, grazie a una cultura che spaziava dai classici cinesi alla letteratura e alla filosofia europea di costituire un ponte fra due mondi. Nella sua letteratura e nelle sue opere storico-biografiche di uomini celebri di periodo Edo, l’interesse per la cultura tradizionale giapponese è mitigato dalla consapevolezza della spinta verso la modernità del Meiji e dalla propria comprensione dell’apporto delle culture europee a questa modernità. Ciò non gli impedisce, però, come avviene nel brano che ho scelto, di considerare il dissidio fra dovere e sentimento (giri e ninjō) di stampo confuciano, che ancora impregnava la coscienza degli individui nella nuova società giapponese.

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