Mukashi mukashi. Contro l’epidemia, leggiamo! Un giapponese francofono, ad esempio.

Scolari tornando a casa scherzano davanti al monumento dedicato alla scrittrice Hayashi Fumiko. Onomichi, novembre 2019.

Alla scuola primaria, quando avevo dieci anni, entrò nella mia vita un nuovo corso: lavori domestici. Bambine e bambini dovevano ora acquisire i rudimenti delle conoscenze pratiche, il saper fare indispensabile alla costruzione di una vita familiare ordinata e equilibrata: cucina e cucito, soprattutto. La maestra ci comunicò che, per le lezioni di cucito, ognuno doveva avere una scatola da cucito con tutti i suoi piccoli accessori e che la scuola organizzava un acquisto collettivo di scatole in plastica per uso pedagogico con all’interno tutto il materiale necessario. Poi ci distribuì un foglio d’iscrizione e ci chiese di darlo ai nostri genitori spiegando loro quello che ci aveva detto.

È ciò che feci. Avrei imparato dunque a cucire? Che buffa idea! Ma sarebbe stato di certo divertente! Che cosa avrei fatto? Un futon per Shiro, il cucciolo bianco! Sì, un futon per lui!

Shiro era un cucciolo tutto bianco di cui mi occupavo all’insaputa dei miei genitori in un bosco di bambù vicino a casa. Alcuni bambini del quartiere mi erano complici. Portavamo al nostro amico canino i resti rubacchiati di cibo.

Pensavo del tutto naturalmente che mia madre avrebbe compilato il foglio di iscrizione. Ognuno avrebbe riportato a scuola l’indomani il tagliando di ordine ritagliato per avere una bella scatola da cucito identica a quella degli altri. Mia madre diede una scorsa al messaggio della maestra. Sul suo viso si disegnò allora, per qualche secondo, un’aria pensosa. Mi disse infine che aveva una piccola scatola in metallo che poteva andare a pennello.

“Quella graziosa scatolina dei biscotti secchi. Ora è vuota. I biscotti li abbiamo mangiati…”

“Ma la maestra ci ha detto che avremmo comprato una scatola da cucito a scuola!”

“Ma se si ha a casa qualcosa di simile non ne vale la pena, capisci? In più ho anche tutto quello che serve da metterci dentro. Vado a cercare… Vedrai!”

Mia madre tornò con una scatola in metallo molto colorata. Si vedeva sul coperchio un vasto paesaggio di montagne.

“Vedi? È piccola e graziosa. Credo che sia perfetta come scatola da cucito. Ti piace?”

Non risposi. Accidenti, si mette male. Sarò il solo ad avere quest’accidenti di scatola di biscotti…

“Ma sarò il solo, mamma. Tutti acquistano l’affare della scuola. E poi, è un po’ ammaccata, la tua scatola… Non voglio che mi prendano in giro!”

Avevo voglia di piangere ma facevo di tutto per impedirmelo.

“Ma no, non è niente… Penso che sarà una scatola da cucito molto graziosa. Chiederemo consiglio a papà questa sera, d’accordo?”

Mio padre, ovviamente, approvò. Nulla giustificava ai suoi occhi l’acquisto della scatola da cucito raccomandata dalla scuola, visto che sua moglie poteva dare al loro figlio qualcosa di simile che poteva contenere tutto quello che la maestra chiedeva.

“Tu hai bisogno di una scatola per metterci tutto quello che serve per cucire. È una fortuna che abbiamo questa scatola! E in più è bella! Perché spendere del denaro inutilmente?”

“Ma papà, sarò il solo ad avere una scatola bizzarra come questa… Mi chiederanno perché non faccio come gli altri… Non mi piace…”

Singhiozzavo, quasi.

“Tu hai una scatola da cucito per imparare a cucire. Non è per mostrarla agli altri, né per compararla con quelle degli altri. L’unica cosa importante è che tu, in questa scatola, abbia tutto ciò che serve per imparare bene a cucire, per mettere in pratica le istruzioni della maestra…”

Era l’ultima parola della conversazione familiare, decisiva, definitiva, senza appello, con tutto il peso dell’autorità paterna, impercettibile ma reale.

Arrivò il giorno della prima lezione di cucito.

Mia madre aveva confezionato un sacchetto per metterci la famosa scatola. Era un sacchetto davvero bello che era riuscita a fare con diversi vecchi scampoli di tessuto con motivi di animali e di fiori. La maestra ci chiese di mettere la nostra scatola da cucito sul banco. Eravamo una cinquantina in classe seduti due a due su un tavolino oblungo. Gli altri misero davanti a loro la loro scatola in plastica azzurra con il coperchio arrotondato. Tutte le scatole erano identiche. Ferivano la mia vista. Nessuna spiccava. Ognuno aveva davanti la propria piccola scatola azzurra che brillava di uno splendore singolare, proprio di un prodotto nuovo. Mi sembrava molto più piccola e compatta della mia vecchia scatola di biscotti secchi che, ai miei occhi, mancava curiosamente di rotondità. Avevo come una specie di sentimento di insopprimibile vergogna per la sua taglia eccessiva e la sua ortogonalità. Alla fine tirai fuori a mia volta la scatola cercando di fare in modo che non facesse un rumore metallico suscettibile di attirare l’attenzione dei miei compagni. La mia vicina – ogni bambino era sistemato a lato di una bambina – la guardava furtivamente. O, meglio, sentivo il suo sguardo posarsi sul mio strano oggetto – ma era vero? Avevo caldo: ero avvolto come da una coperta di calore molto spessa. Di colpo, un attacco di dolore mi aggredì il basso-ventre. Mi agitai. Ma non durò: al contrario, si affievolì a poco a poco per poi scomparire. Ouf.

La maestra ci disse di togliere il coperchio. Voleva verificare che avessimo l’occorrente per il cucito. Ogni volta che nominava un oggetto, dovevamo tirarlo fuori e appoggiarlo sul banco. Un paio di forbici, degli aghi, un ditale, una spoletta di filo bianco, un’altra di filo nero… Passava fra le file. Passo dopo passo. Gettando un’occhiata rapida sulle cose che si allineavano. Veniva verso di me. E si fermò proprio alla mia altezza.

“Oh, com’è carina! Tua mamma ha avuto l’idea meravigliosa di fare una scatola magica coprendola con della bella carta. Vuoi mostrare agli altri la tua scatola?”

Avevo visto il coperchio; vi avevo visto sopra i motivi di animali e di fiori che erano del resto riprodotti uguali sul sacchetto in stoffa. Ma niente mi aveva colpito, niente si era proiettato sul mio schermo oculare. Era la voce tutta gioviale della maestra che mi faceva alla fine capire l’attenzione tenera e sottile di mia mamma. Sollevai il coperchio ortogonale.

Da allora sono passati alcuni decenni. Ma sento ancora la sua voce. Si chiamava Muramatsu san, la maestra. Era una piccola signora vestita di rosa che, a volte, scoppiava in una risata sonora.

Mizubayashi Akira

da Petit éloge de l’errance, Gallimard, Paris, 2014, pp. 37-41.

[Il testo originale è in francese. La traduzione è mia.]

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Mizubayashi, professore della Sophia Daigaku a Tōkyō, è anche scrittore apprezzato e conosciuto soprattutto in Francia. Come ha raccontato in alcuni libri autobiografici, la sua è stata, fin da giovane, la scelta dell’erranza, alla ricerca di una patria ideale, umanista e quanto più lontana dai ricordi del Giappone militarista a cui aveva appartenuto la generazione di suo padre. Questa patria ideale Mizubayashi la trova nella lingua francese a cui lo portano i suoi studi e, prima ancora, una spontanea quanto insopprimibile inclinazione. Colpevolmente non ancora tradotto in italiano, Mizubayashi è uno scrittore giapponese da  leggere e da conoscere per il suo sguardo disincantato sulla società giapponese e per la sua testimonianza di intellettuale non omologato.